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Contributo alle Linee di Indirizzo per la Riforma dell’Assistenza Sanitaria e Sociosanitaria della Popolazione Anziana

Le Associazioni di categoria del settore Socio-Assistenziale e Socio-Sanitario, congiuntamente e a firma dei Presidenti Nazionali, nella loro specifica funzione di stakeholder di maggiore rappresentanza,e di attori interni al sistema oggetto di riforma, con l’intenzione di fornire il proprio contributo alle “Linee di indirizzo generali per la riforma della assistenza sanitaria e sociosanitaria dedicata alla popolazione anziana”, hanno prodotto un documento, inviato alla Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio sanitaria della popolazione anziana, articolato in sette punti di interesse, con osservazioni e proposte.

L’auspicio è che incontri la massima diffusione ed evidenzi la posizione di Imprese, Istituzioni e Dirigenti delle strutture del settore socio-sanitario e socio-assistenziale italiano.

Position Paper interassociativo

Position Paper Inter-Associativo

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Contributo alle Linee di Indirizzo per la Riforma dell’Assistenza Sanitaria e Sociosanitaria della Popolazione Anziana

Nel ringraziare sentitamente per l’invito ricevuto le scriventi Associazioni, AGeSPI, ANASTE, ANSDIPP, ARIS e UNEBA, nella loro specifica funzione di stakeholder di maggiore rappresentanza e di attori interni al sistema oggetto di riforma, intendono fornire il proprio contributo al documento Linee di indirizzo generali per la riforma della assistenza sanitaria e sociosanitaria dedicata alla popolazione anziana”articolando in sette punti di interesse le proprie osservazioni e formulando le proprie proposte.

Sommario

Ricognizione della Domanda e dell’Offerta

…“Da anni si dibatte in Italia su quanti siano gli anziani disabili e l’unico dato che incontra un qualche accordo è quello che ritiene il numero degli over 65 con disabilità intorno ai 3 milioni”.

Com’è noto, la “non autosufficienza” è la condizione di chi ha limitazioni nell’autonomia con incapacità a compiere gli atti della vita quotidiana senza l’aiuto di altre persone. Tale condizione presuppone bisogni di assistenza sociosanitaria, così come definita nei Lea (Capo IV del D.P.C.M. n. 15/2017). L’assistenza sociosanitaria, a termini della previsione normativa citata, comprende le prestazioni necessarie a soddisfare il bisogno di salute del cittadino, anche nel lungo periodo, a stabilizzare il quadro clinico, a garantire la continuità tra attività di cura e di riabilitazione, a limitare quando possibile il declino funzionale e migliorare la qualità della vita della persona, associando alle azioni di supporto e di protezione sociale anche le necessarie e appropriate prestazioni sanitarie.

Per il raggiungimento di questi obiettivi, possono essere definiti specifici percorsi di cura o di presa in carico. Percorsi garantiti da operatori sociali, sociosanitari e sanitari, chiamati a sostenere le variabili necessità della persona: dai possibili problemi di disagio sociale, povertà, assenza o inconsistenza della rete familiare, fino alla cura e riabilitazione di condizioni patologiche e al sostegno alle più gravi compromissioni delle autonomie.

Il citato D.P.C.M., oltre ad indicare le categorie di cittadini a cui è garantita l’assistenza sociosanitaria, descrive anche gli ambiti di attività e i regimi assistenziali (domicilio, residenza, centro diurno) nei quali sono erogate le prestazioni sanitarie (mediche, infermieristiche, psicologiche, riabilitative, etc.) e le possibili forme di integrazione con le prestazioni sociali.

Le categorie di cittadini sono:

  • malati cronici non autosufficienti (incluse le demenze)
  • malati in fine vita
  • persone con disturbi mentali
  • minori con disturbi in ambito psichiatrico e del neurosviluppo
  • persone con dipendenze patologiche
  • persone con disabilità.

In funzione delle specifiche condizioni della persona, della gravità e della modificabilità delle sue condizioni, della severità dei sintomi, ecc., le prestazioni potranno essere erogate in forma intensiva o estensiva, oppure mirare al semplice mantenimento dello stato di salute della persona e delle sue capacità funzionali.

Ciononostante, nel nostro Paese i LEA sono ben lontani dalla loro piena e omogenea applicazione. Non vi è neppure convergenza, “politica” (nell’accezione greca del termine) e istituzionale su quali criteri debbano essere utilizzati per lo screening di questa condizione di disomogeneità. Carenza, quella citata, che impedisce anche una chiara quantificazione del bisogno. I dati relativi alla stima del numero di anziani che si trovano in una condizione di ridotta o assente autonomia, per fare un esempio, sono imprecisi.

Nell’attuale contesto è complesso, in sintesi, stimare:

  • la domanda di servizi e i volumi degli interventi che il sistema dovrebbe garantire nei diversi setting e nei diversi livelli di intensità clinica e assistenziale;
  • l’entità dei costi di sistema e degli investimenti necessari.

Appare dunque indifferibile adottare una definizione univoca e identificare strumenti di Valutazione Multidimensionale (VMD) validati e condivisi con (e tra) le Regioni, coerenti con la necessità identificata e sancita dai LEA.

Tali strumenti, una volta uniformemente accolti nei diversi modelli programmatori regionali, potranno garantire efficienza ed equità nella risposta ai bisogni e nella proporzionalità dell’offerta di servizi, stratificando le popolazioni in condizioni di ridotta autonomia in base alla severità del rischio, consentendo altresì di progettare e programmare il reale fabbisogno dei diversi livelli di prevenzione, supporto e cura.

I medesimi strumenti avranno contestualmente impatto sulle politiche di prevenzione. La prevenzione primaria potrà continuare ad operare sulle variabili di educazione sanitaria, stile di vita e determinanti della salute (attori: Comuni, ASL/ATS/ULSS e sistema di cure primarie). La prevenzione secondaria e terziaria vedrà invece più compitamente il coinvolgimento dei servizi sanitari e sociosanitari e delle unità d’offerta dei servizi più complessi (il cui compito è spesso solo quello di rallentare l’avanzamento della compromissione funzionale, valorizzando fiano a quando possibile le abilità residue delle persone con ridotta o assente autonomia).

Giova al riguardo ricordare, come ben descritto anche nel recente documento della Pontificia Academia Pro Vitae, che l’età anziana non rappresenta una categoria omogenea. Adottando la più aggiornata cultura dell’arco di vita, è bene piuttosto individuare modelli di interpretazione evoluti, in grado di leggere in modo analitico ma anche nel loro continuo, le modalità con cui i bisogni delle persone in età anziana si sviluppano nel tempo. Dal più semplice ma anche diffuso bisogno di socialità, riconoscimento e integrazione della fase di vita che segue l’uscita dal mondo del lavoro – oggi più tardiva di ieri – fino alla complessa azione di riprogettazione esistenziale e di riorganizzazione personale e familiare che accompagna la graduale e progressiva comparsa di limitazioni funzionali, più consistente nelle età più estreme, che anticipano l’avvicinarsi del termine naturale dell’esistenza. I modelli di intervento devono dunque essere in grado di far fronte sia a bisogni immateriali (desideri, aspettative, timori, senso e significati esistenziali) che a necessità oggettive, anche di alta complessità nelle età più avanzate.

Le definizioni e gli strumenti di VMD devono in sintesi essere in grado di decodificare questa variabilità, con modalità applicative comprensibili alle persone e con risultati analizzati in modo esperto e funzionale alla condivisione delle decisioni di cura.

È per ciò apprezzabile che nelle ‘Linee generali’ si parli di molteplicità di punti di effettuazione della VMD e si sottolinei l’importanza che viene data, in particolare, alle situazioni di maggiore compromissione delle autonomie, nonché all’expertise delle equipe operanti nelle Rsa e sui cui, in generale, il territorio può fare affidamento.

Il primo punto è quindi capire a chi rivolgere questa riforma senza lasciare fuori nessuno e nel rispetto del reale soddisfacimento dei bisogni delle persone anziane e delle loro famiglie, oltre che della tutela del diritto a ricevere cure appropriate e proporzionate alla propria condizione di vita e di salute.

In questo senso, sembra utile proporre che, oltre alle indagini campionarie condotte periodicamente dall’ISTAT e basate su dichiarazioni delle persone, siano valorizzate le preziose informazioni presenti in diversi sistemi informativi: i registri di patologie croniche, i registri sulle demenze tenuti a livello nazionale e regionale, i sistemi di sorveglianza, gli stessi flussi informativi (SIAD e scheda FAR) del NSIS, sia per l’assistenza domiciliare che per quella residenziale, oppure anche l’Annuario statistico del SSN pubblicato annualmente dal Ministero della salute.

Sono probabilmente già disponibili anche i dati de “Il nuovo sistema di garanzia per il monitoraggio dell’assistenza” (D.M. 12 marzo 2019) che, in sostituzione della Griglia Lea, è entrato in vigore già dal mese di gennaio 2020.

In breve, tutti questi dati potrebbero essere inseriti in una piattaforma informatica nazionale sovraordinata che intercetti gli elementi validi ad essere ricomposti in un archivio organico dal quale si possano ricavare:

  • un quadro più dettagliato della complessità e articolazione dei bisogni che l’età anziana propone e della corrispondente necessità di servizi integrati;
  • la consistenza e i dimensionamenti dei diversi gruppi e sottogruppi di popolazione rispetto alle aree di bisogno individuate;
  • una immagine realistica della situazione attuale e una stima delle linee tendenziali verso il futuro.

Una ricognizione moderna ed efficiente richiede, non tanto una mera raccolta di dati numerici su quanti posti letto siano disponibili e su quante richieste di inserimento attendano di essere evase, ma una vera e propria analisi dei bisogni che prenda in considerazione le esigenze dei Cittadini sia sotto il profilo sanitario, che sotto quello sociale e assistenziale.

Infine, risultano indispensabili e a garanzia di un corretto approccio metodologico, scientifico e nello stesso tempo imprenditoriale, il coinvolgimento e il contributo offerto:

  • dalle società scientifiche del settore come la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria
  • dalle Associazioni rappresentative dei settori da riformare.

Queste ultime sono tra le più attente ‘sentinelle del territorio’, dovendo per esigenze di gestione essere immediatamente in linea con l’evoluzione dei bisogni e la conformazione della domanda.

Questo elemento è ben presente nel documento proposto dalla Commissione, quando si parla di ascolto sistematico di tutte le componentipubbliche e private, del mondo del terzo settore e del volontariato, come pure di quello imprenditoriale e sindacale, scientifico, sociale e sanitario, e ovviamente degli stessi cittadini anziani.

… “La riforma è vincolata ad una precisa visione: quella di “Formulare proposte per la riorganizzazione del modello assistenziale sanitario e sociosanitario dedicato alla popolazione anziana al fine di favorire una transizione dalla residenzialità a servizi erogati sul territorio”

A nostro sommesso parere si deve partire da un presupposto indiscutibile e assolutamente non di parte: non sarà possibile alcuna riforma di riorganizzazione della rete dei servizi per le persone anziane se la risposta di tipo residenziale nelle sue diverse possibili forme non verrà considerata come parte integrante delle complessive risposte al bisogno.

Nelle buone pratiche e nei sistemi di intervento più evoluti è ben dimostrato che lo sviluppo di interventi e di servizi che diano forza al territorio nella sua complessa articolazione (cure primarie, continuità assistenziale, medicina specialistica, cure domiciliari sociali e sanitarie, interventi semiresidenziali), è in grado di prevenire e contrastare l’ospedalizzazione inappropriata, i ricoveri ripetuti o l’istituzionalizzazione precoce o intempestiva.

Nessun paese a economia avanzata, è la realtà a dimostrarlo, può però fare a meno di una rete di strutture residenziali in grado di erogare prestazioni di presa in carico delle situazioni di maggiore complessità.

Tutte le analisi internazionali (OMS, OECD) ricordano come l’Italia sconti un grave ritardo nello sviluppo di unità d’offerta e servizi di long-term care in tutti gli ambiti in cui esso si articola: interventi domiciliari, semiresidenziali e residenziali. Ritardo dovuto alla cronica carenza di investimenti nelle cure territoriali e extraospedaliere che in alcune regioni è drammatica.

In questo scenario, in sintesi, ci sembra assolutamente riduttivo proporre l’assistenza domiciliare come alternativa secca (aliud pro alio) alle cure residenziali. Tanto più se non si conoscono e non si comprendono la diversità delle popolazioni cui questi servizi si rivolgono e dei bisogni specifici che esse esprimono.

A parere degli scriventi, quindi, anziché contrapporre un modello altro (come fosse in antagonismo) è bene immaginare un sistema che integri queste due “soluzioni di intervento” lungo uno scenario di bisogno dinamico e articolato.

L’accompagnamento delle persone lungo l’intero ciclo di vita, con particolare riferimento all’età dell’invecchiamento, richiama all’obbligo di mettere in filiera ‘modelli organizzativi integrati’, come si esprime in un passaggio della scheda n° 8 del Patto della salute firmato lo scorso dicembre, che richiedono il riconoscimento e la valorizzazione operativa di tutti i soggetti della rete e della varietà delle unità d’offerta, nonché delle risposte che esse devono complessivamente essere in grado di garantire.

Deve anche essere richiamato come il termine RSA non sia oggi univoco, facendo riferimento a un complesso di forme residenziali extraospedaliere – peraltro specificatamente previste dai LEA – molto articolato e in Italia particolarmente eterogeneo e confuso.

Sotto il piano puramente normativo, è bene distinguere la prima definizione attribuibile alla legge 833/78 dalle successive evoluzioni della Riforma Ter, dei dpcm sulla integrazione sociosanitaria, della riforma del Titolo V che ha favorito autonomia applicativa alle Regioni, fino ai documenti LEA nelle loro successive stesure.

Se si analizza la realtà, appare evidente come, soprattutto in alcune regioni, le RSA rappresentano oggi veri e propri centri multiservizi integrati, in grado di garantire al territorio di riferimento risposte residenziali temporanee e permanenti, risposte abitative protette, risposte diurne e servizi domiciliari di diversa complessità e configurazione.

Esiste quindi un mondo di servizi articolato, a gestione pubblica, privata profit o privata non profit, di piccole e di grandi dimensioni, dislocate in città o in piccoli borghi, e ordinariamente sempre giustificate dal dover dare una risposta a esigenze oggettive ed esplicite della popolazione circostante. Molte di queste realtà, peraltro, nascono dalla stessa iniziativa dei Comuni e dei cittadini, che le hanno volute, realizzate e accompagnate nella loro storia.

Qualunque processo di riforma deve considerare l’importantissimo ruolo di supporto alla comunità, che questa storicità rappresenta e conserva.

In questo capitolo è bene ricordare che nelle regioni dove sono stati correttamente applicati i sistemi di autorizzazione al funzionamento, accreditamento e contrattualizzazione definiti dalla Riforma Ter e del sistema sanitario, sociosanitario e sociale e dagli atti normativi conseguenti, l’offerta di tutti i servizi – sia domiciliari che semiresidenziali e residenziali – prevede rigorosi standard gestionali e strutturali e altrettanto rigorosi meccanismi di vigilanza e controllo del loro rispetto da parte di tutti gli erogatori, sia pubblici che privati.

È altrettanto evidente che non tutte le regioni e non tutti i territori hanno applicato in modo equivalente e altrettanto rigoroso adempimenti normativi dovuti o hanno vigilato con uguale efficacia sul rischio di diffusione di servizi non adeguati e di enti gestori non qualificati. In questo senso sembra giunto il tempo, come ben proposto dal documento della Commissione, di operare efficacemente per favorire una corretta e omogenea applicazione sull’intero territorio nazionale delle norme già esistenti, senza rischiare però interpretazioni confusive che accomunino in un unicum servizi e situazioni territoriali di qualità ben diversa l’una dall’altra, sia nell’organizzazione che nella qualità delle cure garantite e nei loro esiti.

Piuttosto, occorre rilevare che in Italia il sistema della residenzialità sia sociosanitaria che sociale è strutturalmente sottodimensionato e sottofinanziato, determinando la conseguente insufficienza dell’offerta in rapporto alla domanda.

Si consideri, ad esempio, il dato comparativo tra i paesi appartenenti ai principali modelli di welfare dell’Europa occidentale. Il confronto rispetto al numero di posti letto in proporzione al numero di persone con età superiore ai 65 anni è sconfortante: Olanda 7,3, Svizzera 6,4, Germania 5,4, Francia 5, Austria 4,6, Spagna 4,4, Italia 1,9, Grecia 1,8. Dati simili caratterizzano anche la consistenza delle varie forme di assistenza domiciliare (Oecd health Statistics, www.stats.oecd.org), dove pure l’Italia è molto lontana dai paesi con cui dovrebbe confrontarsi. Queste stesse considerazioni sono state proposte dall’OECD nel 2015 al Ministero della Salute, segnalando come l’Italia non abbia un verso sistema di LTC e quanto l’offerta sia insufficiente, lontana dagli standard internazionali oltre che frammentata, disorganica e distribuita eterogeneamente.

È dunque anziché irrealistico, oltre che non veritiero, il messaggio, amplificato a dismisura dai media ma anche presso taluni contesti istituzionali, circa un presunto eccesso di strutture residenziali per anziani e per persone con disabilità.

Sono state impropriamente definite RSA una pluralità di strutture residenziali molto eterogenee: dalle case o comunità di accoglienza” con 8-10 posti letto alle strutture residenziali per persone autosufficienti o persone parzialmente non autosufficienti che hanno caratteristiche organizzativo-gestionali assai differenti e che – per inciso – nella normativa LEA rappresentano una offerta diversa da quella che alcune regioni garantiscono agli anziani più fragili e con maggiore complessità clinica o assistenziale.

Le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) sono invece strutture sociosanitarie richiamate nei LEA, che erogano, all’interno di specifici nuclei assistenziali, prestazioni di natura medica, infermieristica, di assistenza tutelare e riabilitativa nonché attività di natura sociale educativo e di animazione. Servizi residenziali orientati cioè all’accoglienza di persone anziane non autosufficienti o disabili gravi impossibilitate a rimanere presso il loro domicilio, per carenza di figure e competenze familiari o per carenze di spazi. Oppure ancora per il gravoso e pericolo impatto sui caregiver familiari.

Non da meno, all’interno di esse sono da tempo normate e presenti anche specializzazioni specifiche: nuclei speciali Alzheimer, nuclei specializzati per l’accoglienza di lungo periodo di persone in stato vegetativo o con malattie neuromuscolari, hospice per le necessità della fine vita.

Ad oggi le strutture residenziali in Italia accolgono persone molto anziane – il 75% ha più di 80 anni – con elevata fragilità e in gran parte non autosufficienti (oltre il 78%). Parallelamente ad una contrazione dei ricoveri del 5% nel periodo 2009-2016, è cresciuta la gravità e la complessità della condizione degli ospiti, passati da un 26% di residenti con alto bisogno assistenziale nel 2009 a un 36% nel 2016. Questi dati autorizzano ad ipotizzare che le RSA sono oggi vissute dall’utenza come un servizio destinato ad accogliere le persone nelle fasi avanzate della non autosufficienza, allorché il nucleo familiare – quando presente – si percepisce come non più in grado di rispondere ai bisogni che il loro congiunto presenta. Esse sono quindi, in larga misura, vissute come facenti parte di un continuum di risposte, che vanno dalla domiciliarietà fino alla residenzialità, destinato a rispondere ai diversi bisogni che le fasi dell’evoluzione della fragilità manifestano. Non ultimo, le RSA, in accordo con i Comuni del territorio di riferimento, garantiscono un sostegno specifico e a volte più precoce a persone prive di una rete familiare, per le quali il normale supporto dei servizi domiciliari sia sociali che sanitari non può in alcun modo compensare l’assenza di una rete naturale di sostegno.

Il confronto tra i residenti delle strutture in Italia e all’estero indica nel nostro Paese la presenza di profili sanitari e assistenziali più complessi, con riferimento anche a salute mentale, demenze e stato funzionale compromesso. Lo studio Shelter mostra che la tipologia dei residenti italiani si discosta da quella degli altri Paesi europei per una più alta percentuale di persone che versano in condizioni di dipendenza nelle attività di vita quotidiane – 42% in Italia contro il 25% in Germania- e che soffrono di disturbi psico-comportamentali – 36% in Italia contro il 20% in Germania. (Onder et al., 2012). Analogamente, una recente analisi sulle cause di morte nelle strutture in Belgio, Finlandia, Italia, Paesi Bassi, Polonia e Inghilterra evidenzia come gli ospiti italiani siano più fragili e complessi rispetto a quelli degli altri Paesi (Honinx et al., 2019). Con una maggior prevalenza di persone con demenza rispetto agli altri Paesi – in Italia il 75% con demenza al momento della morte, percentuale superata solo dalla Finlandia con l’82%, contro, ad esempio, il 60% circa di Regno Unito, Olanda e Belgio – la più elevata percentuale di ospiti multi cronici – il Italia il 15% di ospiti al momento della morte presentavano 4 o più patologie contro, ad esempio, il 2,7% in Olanda, circa il 5% in Regno Unito e Polonia e il 7,8% in Belgio- e la più alta percentuale di residenti con compromissione cognitiva, variabile da moderatamente grave a molto grave – in Italia il 73% contro, ad esempio, il 48% nel Regno Unito e il 51% in Belgio e Olanda. (L’assistenza agli Anziani non Autosufficienti In Italia 7° Rapporto 2020/2021).

In questa prospettiva è arduo pensare di poter far fronte ai bisogni complessi dell’anziano fragile riducendo la risposta, già ridotta rispetto al contesto europeo, di natura residenziale a favore di un sistema domiciliare che, in ogni caso, postulando la presenza di caregiver familiari o professionali adeguatamente formati alla gestione della persona non autosufficiente e con una “disponibilità di tempo” da dedicare alle cure della persona, è caratterizzato da non poche criticità. Non ultimo, questa assistenza desiderabile e gradita a persone e famiglie, trova un limite invalicabile nel momento in cui la complessità clinica e assistenziale supera le capacità umane e tecniche dei sistemi familiari ma anche dei servizi disponibili.

Certamente, però, l’offerta di servizi domiciliari formalizzati – nella logica già sottolineata di integrazione e continuità con l’offerta residenziale – è oggi del tutto inadeguata ai bisogni delle persone.

In particolare, l’ADI, si configura oggi per lo più come un servizio di assistenza essenzialmente infermieristica (in minor misura riabilitativa) ad impostazione prestazionale e di bassa intensità (fra i 10 e i 14 accessi all’anno, secondo le medie nazionali). In altre parole, garantisce più prestazioni che una vera presa in carico esperta e multi professionale dei bisogni delle persone con malattie croniche o limitazioni funzionali.

Opera, inoltre, in forme spesso poco integrate con la parallela e ancora meno consistente risposta domiciliari dei servizi sociali comunali e questa integrazione è spesso impossibile per le diverse modalità di inclusione delle persone previste dalle normative vigenti: per diagnosi e bisogni sanitari per l’ADI, per reddito per i servizi di assistenza domiciliare sociale. Non ultimo, in molte regioni sono anche previste specifiche incompatibilità, che impediscono, ad esempio, l’integrazione di risposte diverse (domiciliari, semiresidenziali) per costruire pacchetti di offerta personalizzabili sulle specifiche esigenze di persone e famiglie; oppure, esistono limiti non superabili di budget che riducono l’intensità o la durata nel tempo delle prestazioni domiciliari, in modo indipendente dalla valutazione dei bisogni.

In estrema sintesi, quello delle cure domiciliari oggi non è in realtà un sistema. Offre prestazioni “slegate” tra loro che non sembrano neppure rispondere in misura adeguata ai bisogni di “cura” che caratterizzano il vissuto e le esigenze delle famiglie.

L’accompagnamento a domicilio può avvenire solo con una riorganizzazione integrata del servizio ADI rispetto al complesso delle offerte di supporto a domicilio, in una visione di sistema e di orientamento alla persona piuttosto che alla sola malattia o prestazione. Peraltro, gli stessi interventi ad alta intensità, che potrebbero supportare bisogni complessi, sono carenti e inadeguati ad evitare ospedalizzazioni inappropriate, se non inutili o pericolose.

L’elevata eterogeneità territoriale quantitativa e qualitativa dei servizi di ADI disponibili nelle varie parti d’Italia, l’assenza di una “presa in carico” legata alle complessive condizioni e attenta ai bisogni anche di natura “tutelare” che la condizione di non autosufficienza dell’anziano postulano e la mancata integrazione sociosanitaria, ribadita in molteplici atti normativi e realizzata solo parzialmente e a macchia di leopardo, rappresenta l’ostacolo più grande affinché l’anziano possa rimanere al proprio domicilio.

Infine, in merito alla condizione delle famiglie, il cui contesto rimane indubbiamente da privilegiare, occorre tuttavia tenere presente che “Le famiglie italiane sono sempre più piccole come ci informa l’Istat nell’Annuario statistico 2019. «Le famiglie, 25 milioni e 700 mila, sono sempre più numerose e sempre più piccole con un numero medio di componenti che è passato da 2,7 (media 1997-1998) a 2,3 (media 2017- 2018), soprattutto per l’aumento delle famiglie unipersonali che in venti anni sono cresciute di oltre 10 punti (dal 21,5% nel 1997-98 al 33,0% nel 2017).

A livello nazionale, (www.tuttitalia.it), esaminando i dati relativi alla popolazione degli >65enni: il 7,37% è “celibe/nubile” mentre il 29,4% è vedovo/a e il 3,22% è divorziato/a. Il che porta a considerare che una significativa percentuale della popolazione >65enne (39,63%) presenta indicatori di “rischio di solitudine” che, in caso di non autosufficienza, presenta elementi di criticità.

Tali dati, laddove si consideri la popolazione <80enne: il 6,73% è “celibe/nubile” mentre il 42,70% è vedovo/a e il 1,96% è divorziato/a portano ad ipotizzare che in tale cluster d’età le persone a “rischio di solitudine” sono il 51,39% con inevitabili impatti anche considerando l’incremento, in tale popolazione, di persone con diversi gradi di “fragilità” e non autosufficienza.

L’aumento delle condizioni di cronicità poli patologica, lungi dal far venire meno l’importanza delle RSA, ne ribadisce la loro necessità nonché la necessità urgente di un incremento dei posti letto attualmente disponibili, per avvicinare questi – come per l’assistenza domiciliare – agli standard minimi di tutti i paesi ad economia avanzata. Si tratta, in ogni caso, dell’applicazione di quanto riconosciuto dall’articolo 30, comma 1 a) del DPCM 12 gennaio 2017 e dell’applicazione ubiquitaria sul territorio nazionale dell’articolo 29 del medesimo DPCM relativo all’Assistenza residenziale extraospedaliera ad elevato impegno sanitario.

Anagrafe nazionale delle Residenze

…“La Commissione ritiene urgente e doveroso un grande sforzo conoscitivo che si concretizzi nella creazione di una anagrafe nazionale delle residenze….la definizione di specifici requisiti di qualità dei servizi e dei percorsi di cura, e l’avvio di un sistema nazionale di accreditamento sia dei servizi residenziali che di quelli semiresidenziali e domiciliari”.

I sistemi di autorizzazione, accreditamento e convenzionamento/contrattualizzazione delle strutture sociosanitarie, i cui standard sono delegati alle regioni, non sembrano essere sufficienti a rilevare la qualità delle strutture residenziali. Esistendo una anagrafe regionale delle strutture residenziali autorizzate e accreditate, concordiamo sulla validazione di un sistema nazionale di monitoraggio della qualità dei servizi residenziali e domiciliari.

Gli attuali sistemi di monitoraggio hanno infatti il primario obiettivo di fornire mappature strutturali dei presidi, del numero di utenti e del personale, senza approfondire la qualità e l’appropriatezza dei servizi erogati. Si potrebbe adottare un sistema di valutazione in benchmarking, individuando un set di indicatori di processo differenziati per setting assistenziale e validati dalla letteratura scientifica, per le valutazioni comparative di equità, sicurezza e appropriatezza dell’accoglienza alberghiera, delle cure e dell’assistenza, erogate negli ambiti residenziale e domiciliare. Ciò, unito a una maggiore sorveglianza sul territorio, consentirebbe di emarginare tutte le attività abusive che ledono gravemente l’immagine della residenzialità da una parte e dall’altra farebbe emergere le tante realtà di good practices e di quality of care già esistenti nelle residenze.

Il Continuum Assistenziale, RSA di prossimità e telemedicina

…“La novità più rilevante della proposta è che tutti gli erogatori di servizi sia pubblici che privati (convenzionati o meno) siano vincolati ad offrire l’intero continuum assistenziale secondo proporzioni rigorosamente commisurate alla epidemiologia delle disabilità, della non autosufficienza e delle fragilità.

È pienamente condivisibile l’impostazione per cui gli erogatori dei servizi debbano inserirsi in una filiera integrata che si contraddistingue per essere senza soluzione di continuità, dove la domiciliarità si integra con i servizi residenziali e semiresidenziali, anche in post acuzie, con particolare attenzione alla prevenzione dell’istituzionalizzazione attraverso interventi di inclusione e di monitoraggio sanitario di bassa soglia. In questo modo i presidi possono davvero essere protagonisti dell’integrazione di un modello che non meramente assistenziale con profili sanitari, ma di vera e propria “cura” nella sua accezione più ampia di perseguimento del benessere psico-fisico della persona fragile.

Rimane da chiarire in tale continuum quando inizia la presa in carico, sia operativamente sia amministrativamente, e quali siano i criteri nella definizione degli indici programmatori per ciascuna tipologia di servizio.

Inoltre, visto che in un’altra parte del testo è detto che la regia va affidata al distretto, si dovrebbe precisare che ogni Regione (nel caso di regioni piccole e delle PA si potrebbe parlare di Regioni contigue), tramite i singoli distretti o distretti contigui, deve gradualmente assicurare l’intera filiera dei servizi, dalla prevenzione primaria sino alla Rsa.

In merito alla prevenzione occorre spingere sul tema dell’invecchiamento attivo, che da anni è nell’agenda dell’UE, ma è ancora un percorso da costruire e di cui soprattutto i Comuni dovrebbero farsi protagonisti.

Certamente, i finanziamenti aggiuntivi per l’ADI previsti dal decreto Rilancio, aprono uno spiraglio di rilievo ma il passaggio dalle attuali 20 ore annue ad una assistenza domiciliare continuativa come viene auspicato, richiede non solo un investimento politico, ma soprattutto investimenti economici consistenti e una adeguata progettualità commisurata alla tipologia del servizio richiesto. L’ADI, per sua natura, si caratterizza prevalentemente come un servizio prestazionale e discontinuo, che la famiglia e l’assistito devono oggi necessariamente integrare. L’attuale caratterizzazione dell’intensità assistenziale, sia in termini di quantità di ore/settimana che di distribuzione nell’arco della giornata, non permette una reale presa in carico continuativa dell’anziano non autosufficiente. Mentre vengono garantite le prestazioni essenziali, a bassa intensità e prevalentemente infermieristiche (prelievi ematici, igiene della persona, gestione dell’incontinenza), non sono invece garantiti i trattamenti terapeutici di maggior complessità e multidisciplinari, trattamenti riabilitativi e di rieducazione funzionale. Rimangono scoperte diverse funzioni assistenziali fondamentali (es. alzata, messa a letto, assistenza ai pasti, bagno, ecc.) che richiedono la presenza giornaliera di un caregiver familiare o professionale, e ancora meno garantiti sono il supporto educativo e psicologico all’assistito e alla sua famiglia. Un’assistenza continuativa dovrebbe, per definizione, prevedere anche una copertura nelle ore notturne e nei giorni festivi, mentre le prestazioni in ADI (…e solo quelle a bassa intensità) vengono garantite esclusivamente nelle ore diurne dei giorni feriali. Questo spiega la mole di cure informali che nel nostro Paese è necessaria per permetterne la permanenza a casa.

Certamente, accogliamo favorevolmente il riconoscimento del ruolo riabilitativo delle RSA, che si pone accanto a quello di mantenimento delle cure dove non sussistano i presupposti per il rientro a domicilio, e la diversificazione dei servizi residenziali.

Va però anche ricordato che non è ancora del tutto completata a livello nazionale la riforma della riabilitazione e che i LEA prevedono come dovuta la garanzia ai cittadini dell’offerta di riabilitazione con diversi livelli di intensità (intensiva, estensiva e di mantenimento) nei diversi setting in cui essa può essere erogata: degenza, residenzialità, semiresidenzialità/day-hospital, ambulatoriale, domiciliare. Va anche ricordato che alcune linee di riabilitazione appartengono già al mondo sanitario, come previsto dall’art. 26 della legge 833/78 e che alcune applicazioni più recenti in diverse regioni (basti pensare ai sistemi di cure intermedie) appartengono già prevalentemente al sistema socio-sanitario, sono a totale carico SSN e sono già un modello di applicazione della riabilitazione estensiva. Sotto molti aspetti, anzi, riprendono esattamente quanto la legge 833/79 definiva come RSA.

Negli scenari attuali, quindi, è necessario una estrema attenzione all’analisi di quanto già presente negli scenari normativi e di quanto questi abbiamo già applicato principi meritevoli di aggiornamento nel tempo. Andrebbe anche sottolineato, nello specifico dell’approccio alla vecchiaia e dei modelli di long-term care, i principi del Reablement, coerenti con le indicazioni dell’OMS e dell’ICF e particolarmente coerenti con i temi affrontati dalla Commissione. Il Reablement, definibile come “un modello orientato alla persona e alle sue autonomie residue, che promuove e ottimizza indipendenza e di benessere. Il suo scopo è quello di garantire un cambiamento positivo utilizzando gli obiettivi definiti dagli utenti ed è progettato per consentire alla persona di acquisire o riconquistare fiducia, capacità e le abilità necessarie per vivere nel modo più indipendente possibile, soprattutto dopo una malattia, traumi o altre condizioni di compromissione della salute” (SCIE, 2020). Il Reablement promuove un approccio proattivo, preventivo e user-centred, che favorisce anche il coinvolgimento attivo delle persone più anziane (Rostgaard 2018). Soprattutto nei paesi nordici, i programmi di Reablement fanno stabilmente parte dell’offerta domiciliare, garantendo il supporto quotidiano di servizi di riabilitativi e di addestramento orientati a guadagnare nuova indipendenza, funzionalità e abilita fisiche. I programmi coinvolgono fisioterapisti, terapisti occupazionali e assistenti domestici e prevedono fino a 12 settimane di addestramento durante le quali anziani e caregiver identificano alcuni obiettivi (lavarsi, governare la casa, gestire le piccole pulizie quotidiane) e lavorano insieme per raggiungerli. Se gli obiettivi non sono raggiunti, sarà invece garantito il normale supporto domiciliare. Questi programmi possono essere garantiti a domicilio o nei centri diurni, ma anche nelle strutture residenziali abitative o socio-sanitarie, favorendo il superamento della visione tradizionale della riabilitazione e del suo specifico focus sulla malattia e su un evento circoscritto nel tempo (trauma, ictus), per arricchirlo di contenuti più orientati agli obiettivi che le persone e le famiglie si pongono di poter continuare a mantenere o ricuperare autonomie anche minime nelle attività della vita quotidiana di base.

Nel complesso, questo articolato scenario culturale, normativo e organizzativo-gestionale comporta una periodica rivalutazione e differenziazione del carico assistenziale e un efficace governo della domanda, capace di valutare attentamente i singoli casi e di indirizzarli verso la soluzione più coerente grazie a una solida infrastruttura professionale e organizzativa. E’ doveroso inoltre sottolineare che la determinazione di “periodi contingentati” per i ricoveri in RSA confligge con il diritto alla continuità della cura, così la “dichiarata necessità di rovesciare una prospettiva consolidata di “mantenimento” in favore di una vera e propria azione terapeutica e intensiva che tali strutture residenziali dovrebbero svolgere” potrebbe escludere e tagliare fuori dal diritto all’assistenza quella gran fetta di persone affette da malattie croniche in fase avanzata che pur non avendo più possibilità di recupero, hanno pur sempre un inviolabile diritto al non peggioramento e al mantenimento delle miglior grado di benessere possibile, che solo nelle residenze possono ottenere. Non da meno, per quanto già espresso in precedenza, rischia di confondere o confliggere con ambiti erogativi che le norme già prevedono per altri servizi o unità d’offerta, più attinenti all’area della riabilitazione in senso stretto.

Condividiamo senz’altro il richiamo, in merito alla continuità ospedale-territorio, al ruolo delle Rsa dopo un’ospedalizzazione e a fini riabilitativi per il tempo necessario alla stabilizzazione delle condizioni di salute favorendo il rientro al domicilio; oppure alla necessità di un consistente sviluppo di altre forme di domiciliarità protetta, che fa riferimento all’articolato scenario dei servizi di vita indipendente e dei servizi di vita assistita richiamati anche dal documento della Pontifica Accademia Pro Vitae. Si tratta di un ambito decisivo per il sostegno abitativo e la garanzia di socialità e di protezioni accessorie, soprattutto per gli anziani che non possono contare su una rete familiare o naturale di protezione adeguata alle proprie necessità. Nei paesi a economia avanzata questi servizi – molto variabili nelle denominazioni (abitazioni protette, housing sociale, abitare con servizi, co-housing) e ancora di più nelle concrete applicazioni – rappresentano ormai nei paesi a economia avanzata un elemento di innovazione e di sviluppo determinante, vera e propria piattaforma abitativa per una più efficace e efficiente erogazione dei sistemi di cure domiciliari. In Italia, la normativa non sembra ancora recepire in modo univoco questa domanda e anche le applicazioni regionali sono poche e spesso parziali se non addirittura confusive.

Va anche ricordato, però, che il decreto legge 95/2012, articolo 15, comma 13, lettera c), ha programmato la riduzione dello standard di posti letto ospedalieri: i 4 posti letto per mille abitanti, precedentemente previsti, sono stati ridotti ad un massimo di 3,7 posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie. Specularmente, il tasso di ospedalizzazione è stato portato dal valore di 180 per mille abitanti al valore di 160 per mille abitanti, di cui il 25 per cento riferito ai ricoveri diurni (Day Hospital). Questa tendenza ha determinato una forte pressione sui posti letto di post-acuzie presenti nelle Rsa di alcuni sistemi regionali. Sembra quindi necessario, per non interferire con la stima del precedente 0,7% prevedere un separato e specifico indice programmatico con relativa valorizzazione tariffaria. Tale indice va pesato sulla base della percentuale di anziani ogni 1000 abitanti.

Accogliamo con plauso la proposta di conferire alle RSA un più ampio respiro di disponibilità al territorio, come elementi comuni di un unico sistema di assistenza all’anziano e alle famiglie. Di certo le competenze sviluppate dalle RSA possono essere estese a vantaggio del territorio in cui operano in particolare sviluppando e tariffando modalità specifiche di teleassistenza con potestà prescrittiva per i medici operanti nelle RSA, così da poter accudire le persone non autosufficienti a domicilio.

In questo ultimo periodo sempre più regioni stanno sviluppando le strategie già condivise e pubblicate nel documento “Telemedicina – Linee di indirizzo nazionali” sottoscritto dalla Conferenza delle Regioni nel febbraio del 2014. Quest’idea non è nuova in quanto già stata espressa chiaramente nel Piano Nazionale della Cronicità del settembre 2016 in cui si sottolineava la necessità di promuovere l’impiego di modelli, tecniche e strumenti della sanità digitale nella gestione della cronicità al fine di garantire continuità e migliore qualità dell’assistenza, migliore efficacia, efficienza e appropriatezza.

Accanto all’utilizzo di teleassistenza e tecnologia domotica è possibile implementare a figure come l’infermiere domiciliare e l’OSS itinerante. La visione più evoluta delle RSA, vuole ripensarle come veri e propri sistemi integrati multiservizi, ben integrati nel proprio territorio, aperti alle esigenze della comunità e in grado di mettere la solidità organizzativa che alcuni regioni – più di altre – sono state in grado di favorire, a servizio delle esigenze della propria comunità e di forme erogative integrative e complementari sia di quella residenziale che di quella domiciliare. Non va dimenticato, come in molte regioni le RSA più evolute, garantiscono anche servizi domiciliari, diurni e diverse forme di residenzialità abitative protetta.

Si auspica che questi modelli possano essere riconosciuti nel loro valore e rappresentare l’elemento di collegamento diretto tra territorio e struttura, favorendo attraverso una presenza esterna continuativa e qualificata, l’abbattimento della barriera culturale che ancora divide il “dentro” la struttura dal “fuori”, cioè la propria casa ed i propri affetti.

L’evoluzione della tecnologica mette a disposizione dispositivi medici sensoriali, tecnologie di Ambient Assisted Living (sensori ambientali – gas, acqua e riscaldamento, sensori di presenza e di movimento, di alzata dal letto, di entrata e di uscita, ecc.) e opportunità di servizi di telemedicina. L’utilizzo di queste tecnologie può integrare efficacemente la presenza domiciliare dell’operatore in tutte le operazioni di monitoraggio e tutoring. Infine, il potenziamento di una rete che coinvolga, oltre agli attori istituzionali, anche tutte le realtà attive nel territorio (associazioni, volontariato e terzo settore, comitati degli utenti, associazioni benefiche, fondazioni, ecc.) può presentare notevoli occasioni di co-progettazione di interventi mirati alle specifiche necessità dei singoli territori, proprio raccogliendo e valorizzando istanze e esperienze di base, regolarmente trascurate dal sistema attuale.

Il Modello della “presa in carico” e l’accesso ai servizi

Tra le priorità per il cambiamento, la più indefinita ma necessaria è la profonda revisione organizzativa dei tre livelli di integrazione, istituzionale, gestionale e professionale.

Bisognerebbe definire con chiarezza come realizzare l’integrazione e le responsabilità nei livelli di attuazione: la logica condivisa da altre riforme attuate da diversi paesi europei (Austria nel 1993, Germania nel 1995, Francia nel 2002, Spagna nel 2006, Danimarca dal 1986), ha avuto come analogo risultato l’imperativo di definire un ruolo di regia e coordinamento a livello centrale su linee d’indirizzo, terminologia e requisiti, pur nulla ostando alla possibilità data alle Regioni di fornire LEA aggiuntivi al quadro nazionale.

Nel contesto italiano, emerge evidente e non secondario come la definizione dei servizi, delle loro dimensioni quanti-qualitative e della loro distribuzione territoriale, siano definite da ciascuna regione. L’onere di sviluppare il sistema di long-term care a discrezione di Regioni e Comuni ha dimostrato la sua inconsistenza nell’inserirsi efficacemente in un panorama segnato da grandi differenze nei sistemi locali di welfare. È nostra convinzione che, in questo contesto la non autosufficienza manca anzitutto di un progetto legislativo unitario strutturale.

In particolare, la complessità clinica che caratterizza le persone anziane affette da comorbidità e multi morbidità richiede un approccio differenziato che deve tener conto di determinanti di fragilità, vulnerabilità e clinico-funzionali.

Non è molto chiara e, si chiede di motivare con evidenze, il modello di presa in carico e l’individuazione delle “Classi del continuum assistenziale” riportate nella tabella 1 del documento e l’individuazione di un

preciso processo sequenziale di accesso ai servizi. La presa in carico globale della persona, basata sui principi del “patient centered care” e sui “goals oriented patient care”, non può essere “incasellata” secondo schemi vincolati da limiti di età (l’assistenza residenziale non può essere a priori un’opzione riservata solo agli over-80) e da una predeterminata sequenza delle componenti dell’offerta assistenziale. Questa ipotesi operativa è in contrasto con i principi di appropriatezza e congruità dell’intervento assistenziale personalizzato. Va anche ricordato, come i modelli più attuali – più spesso richiamati anche dalle indicazioni OMS o OECD – sono ormai per definizione person-orientend e non più patient-centered, sottolineando le necessità di prendere in carico le esigenze più complesse della persona, piuttosto che quelle più limitate e circoscritte legate alla presenza di una o più malattie. In particolare, il Chronic Care Model e ancora di più l’Expanded Chronica Care model, assegnano particolare rilevanza alla integrazione fra cittadini proattivi, informati e consapevoli e sistemi di cura a loro volta proattivi e aggiornati. E’ questo incontro, che impone modelli di governo e regolazione ben diversi da quelli tradizionali, che permette di alimentare una progettazione degli interventi coerente coni desideri delle persone e con obiettivi di vita e non solo di guarigione dalle malattie.

Per scegliere verso quale servizio orientare la persona anziana o disabile si deve quindi partire dal loro progetto di vita, dalle capacità residue, dai bisogni, dalle relazioni, dal contesto famigliare, dalle condizioni economiche. Quindi partire dal bisogno, dalla domanda, dalla richiesta di aiuto e di assistenza tenendo conto di tutti i determinanti sociali, clinici e funzionali.

A titolo rapidamente esemplificativo vi proponiamo una tabella in cui si incrociano variabili di ‘Vulnerabilità’ e di ‘Fragilità’. Va sottolineato, come questa ipotesi classificatoria, fa riferimento ai servizi esistenti, senza tenere conto delle possibilità che la diffusione di nuovi e più aggiornati modelli di residenzialità abitativa o di domiciliarità possano aggiungere alle possibilità di scelta sia delle persone che dei regolatori dei sistemi.

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Formazione e qualificazione professionale

… “Il documento pone quindi le premesse per la riforma ed il potenziamento di altri due settori strategici della assistenza agli anziani: quello degli assistenti familiari ( le cosiddette badanti), pilastro fondamentale e peculiare del nostro sistema, in particolare gli OSS, su cui un grande lavoro di formazione ed integrazione resta da fare”.

La Commissione correttamente pone l’accento sull’importanza sulla qualificazione degli assistenti domiciliari, degli OSS e dei case manager. Dal canto nostro riteniamo che l’apprendimento di base e la formazione continua siano imprescindibili in un ambito, complesso e multidisciplinare, come quello dell’assistenza alla persona. Ad oggi non esiste nessuna evidenza sulla formazione e sulle competenze nella gestione di anziani fragili o persone con demenza e con disturbi del comportamento, di questo “pilastro fondamentale e peculiare del nostro sistema”. In nessun sistema-paese si ipotizza di assegnare un ruolo così rilevante a persone prive di alcuna esperienza o formazione dimostrabile o viene sottovalutata la rilevanza di barriere linguistiche o culturali proprio nello specifico del sostegno ai più anziani. Piuttosto, in molti paesi, a partire da quelli scandinavi, sono già attivi da tempo programmi di valorizzazione del ruolo dei caregiver non retribuiti. Ad esempio, in Danimarca, le persone possono chiedere al comune di essere registrate come caregiver di un familiare stretto. La registrazione è possibile una volta che i servizi sociali accertino che l’alternativa possano essere rappresentate solo da cure in ambienti esterni alla casa o con operatori retribuiti e a tempo pieno. Il caregiver deve dimostrare di poter garantire le cure necessaria, di non essere in età di pensione e che esiste un accordo con il beneficiario delle cure (Olejaz M, Juul Nielsen A, Rudkjøbing A, Okkels Birk H, Krasnik A, Hernández-Quevedo C. Denmark: health system review. Health Syst Transition. 2012;14:1–192). Una volta registrato, il caregiver viene assunto dal comune per un tempo massimo di sei mesi con una retribuzione calcolata in base al reddito personale, oppure può essere compensato per i mancati guadagni legati alla cura di un familiare in condizione terminale. Per i caregiver non remunerati, sono previsti servizi di sollievo, come la sostituzione nel lavoro di cura per alcune ore al giorno, ricoveri di sollievo in strutture esterne o l’aiuto domiciliare con caregiver formali. I servizi di sollievo sono diffusi ma diversamente disponibili nelle diverse municipalità. Sono infine previsti interventi di addestramento, educazione, gruppi di auto- e mutuo-aiuto. Negli stessi paesi e in altri ancora sono previsti ruoli specifici per gli assistenti familiari, con norme utili anche a favorire l’emersione del lavoro nero e la sicurezza di familiari e assistenti. Non va però dimenticato che le cosiddette “badanti” nel nostro paese sostengono la maggior parte degli anziani non autosufficienti, svolgendo compiti (igiene personale, trasferimenti letto-sedia, imboccamento anche di persone con problemi di deglutizione, somministrazione di terapie, uso di ausili e protesi) che in un sistema-paese difficilmente possono essere senza problemi o senza una solida riflessione affidati a persona senza una preparazione o una professionalità specifica. Diverso è favorire, attraverso una solida e robusta riforma normativa, pensare che questi operatori possano svolgere alcuni compiti fondamentali per il supporti alla famiglia (sorveglianza, governo della casa, accompagnamento della persona, aiuto nella vestizione o nell’uso dei servizi igienici, altro) simili a quelli di un normale familiare, ma integrati da un sistema di intervento domiciliare in grado di integrare le loro prestazioni con quelle di professionisti addestrati e con le corrette professionalità. Questo, è, in estrema sintesi, il modello di approccio a questo tema seguito da tutti i paesi a economia avanzata, guidato nell’erogazione da una specifica analisi dei bisogni e senza mai prescindere dalla necessità che un operatore retribuito debba necessariamente avere una certificazione formativa e un inquadramento professionale coerente con le prestazioni che è chiamato ad agire.

Troppo sottovalutata è l’importanza che un ampio bagaglio culturale e formativo dei manager a capo dei presidi, riveste nell’economia generale del sistema. Solo sei ai vertici delle singole organizzazioni sono poste figure competenti e specializzate, è possibile incrementare l’efficienza e l’efficacia dell’assistenza alle fragilità In ogni caso, non si può tralasciare di sottolineare che la formazione delle badanti è strettamente vincolata all’emersione di quanti lavorano in nero: oggi oltre il 50% delle badanti è assunto in nero dalle famiglie con percentuali decrescenti tra Nord, Centro e Sud. Nel 2019, le persone regolarmente occupate come badanti in Italia erano circa 407.000 (dati INPS) di cui il 92% donne e per tre quarti straniere. Dopo l’ultima sanatoria del 2012, il loro numero è lievemente aumentato mentre il più vasto insieme dei lavoratori domestici – badanti più colf per un totale di 848.000 – si è lentamente ridotto a causa della contrazione delle colf. Dai dati disponibili è possibile stimare che le badanti regolarmente assunte rappresentino non più del 40% del totale (www.qualificare.info), delineando pertanto un numero consistente di persone impegnate senza un contratto. Quanto appena detto comporta un’elevata evasione fiscale collegata al lavoro domestico (pagamento in nero e mancato versamento IRPEF). Peraltro, la famiglia non svolge il ruolo di sostituto di imposta per le badanti. Questa condizione genera considerevoli importi di evasione fiscale da parte dei lavoratori che spesso ignorano l’obbligo del pagamento delle imposte o comunque scelgono di evaderlo. Non ultimo, le stesse famiglie sono spesso inconsapevoli delle responsabilità che assumono come datori di lavoro, anche ad esempio per quanto inerente il d. lgs 81/2008, di fronte a incidenti o lesioni che l’assistente familiare dovesse riportare per carenza di informazioni o di presidi di sicurezza.

In altre parole, le badanti hanno in questi anni ricoperto un ruolo surrogato che le famiglie hanno dovuto colmare, quello della povertà di servizi per la non autosufficienza a ulteriore riprova delle carenze di programmazione e della povertà dell’offerta di servizi professionali e qualificati. Sembra quindi tempo di colmare questo vuoto, piuttosto che di accettare questa soluzione come desiderabile. Sembra anche tempo di riportare le assistenti familiari ad un impegno meglio garantito e tutelato, proporzionato alle loro capacità e anche rispettoso della loro storia e esperienza di vita.

Se l’intenzione di codesta Commissione è il potenziamento di questo settore, bisognerà agire con abbondante anticipo e in maniera preventiva per preparare il territorio a gestire la complessità e non creare altre criticità trasferendo un carico assistenziale insostenibile con le pressoché inesistenti risorse attuali.

È noto, poi, che le Rsa sono escluse nel curriculum formativo dei futuri medici e non si capisce il perché dal momento che una parte notevole della spesa sanitaria nazionale va utilizzata proprio per le persone più anziane disabili e con multi-patologia; molto spesso sono nelle Rsa dove servono medici ed infermieri con competenze mediche e assistenziali orientate.

Finanziamenti e risorse

Il recente decreto Rilancio (maggio 2020) assegna ai servizi territoriali, un cospicuo contributo di 734 milioni di euro destinati all’ADI, di titolarità delle ASL. Riteniamo che nonostante l’aumento delle risorse disponibili qualunque ipotesi di sviluppo dell’assistenza domiciliare non possa prescindere da una attenta riflessione su quali servizi domiciliari saranno necessari nel prossimo futuro, e quali strumenti adottare per tradurla in pratica.

Il Piano Next Generation EU implica, tra le altre cose, un beneficio molto importante per l’Italia, che riceverà quasi il 30% dei fondi totali di NGEU, pur distribuiti su 27paesi. Questo permette di comprendere l’importanza di sfruttare al meglio quest’opportunità per il nostro paese, a più riprese sottolineata dai media e dalle istituzioni.

Nei contenuti esplicitati nel quadro provvisorio elaborato dal Governo italiano si prevede fra l’altro:

Area tematica 6) Salute 19,7 mld €, di cui:

  • Assistenza di prossimità e telemedicina 7,9 mld €
  • Innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria11,8 mld €

Vista la portata del lavoro che codesta Commissione ha condotto e che interseca la destinazione dei fondi sopracitati, ci sembra inevitabile ancorare le molte proposte avanzate a tali previsioni di finanziamento per avviare una reale e non verbalmente utile riforma.

Tra le altre possibilità di intervento, per esempio, si potrebbe istituire un Fondo unico nazionale per la non autosufficienza suddiviso fra area domiciliare e area residenziale, finanziato con il Fondo sanitario nazionale (importo stimato di circa 9 miliardi di euro, ovvero l’8,5% del Fondo sanitario nazionale (FSN), in quanto i livelli essenziali di assistenza comprendono sia le prestazioni domiciliari che quelle residenziali.

Non di secondaria importanza è il bisogno di sostenere economicamente gli interventi di ristrutturazione, di efficientamento energetico e di riqualificazione delle strutture, per mezzo di fondi strutturali.

Si propone inoltre di intervenire sulla disciplina delle detrazioni e deduzioni per uniformare a quelli degli altri Paesi europei i meccanismi di recupero fiscale delle spese per l’assistenza domiciliare. Ciò favorirebbe anche molte regolarizzazioni di operatori.

Analogamente si potrebbe riflettere sulla reciproca deducibilità tra contributi e Irpef in relazione a specifiche coperture aggiuntive (anche volontarie) per i bisogni da LTC.

Giova infine ricordare come gli enti gestori di origine privata si accollino i rischi di impresa delle complesse attività svolte e gli investimenti necessari a garantire qualità ai servizi residenziali. Spesso attingendo a risorse proprie o di natura comunitaria.

Lezione Covid

… “Abbiamo superato il milione di vittime da COVID 19 nel mondo e si calcola che – almeno nei paesi occidentali – il 50% di questi sia avvenuto in questi ambienti, nelle nursing home, nelle case di riposo, negli ospedali per lungodegenti, insomma nei luoghi della assistenza residenziale a lungo termine”.

In merito alla lezione Covid e alla discutibile e non provata affermazione che il 50% dei decessi sia avvenuto nelle residenze di LTC, si rende necessario evidenziare che l’unica rilevazione nazionale ad oggi disponibile sulla mortalità da Covid sulle strutture residenziali è la survey sul contagio Covid-19 condotta dall’ dall’Istituto superiore di Sanità (5/5/2020).

Tale sondaggio, che ha coinvolto RSA, residenze protette, case di riposo, case protette, centri servizi, ecc., è stata realizzata inviando un questionario a 3.417 strutture a cui hanno risposto 1.356 strutture per un totale di 97.521 anziani ospitati (il 33,7% dei posti letto che sono 289.164). La survey ha chiesto alle strutture di indicare il numero dei decessi complessivi di anziani, di quelli con positività accertata da Covid-19 e di quelli con sintomi simil-influenzali (ma senza positività accertata) dal 1/2/2020 al 5/5/2020. Dalla survey emerge che gli anziani deceduti nelle strutture residenziali per Covid-19 accertato dal tampone sono un numero contenuto pari al 7,4% di tutti i deceduti del periodo. Ma se a questi aggiungiamo tutti i deceduti con sintomi simil-influenzali senza alcun accertamento di positività, i deceduti per sospetto Covid-19 arriverebbero al 41,2% di tutti i deceduti. Nell’ipotesi massima prospettata dalla survey dell’ISS, il tasso di mortalità degli anziani per Covid-19 nelle strutture residenziali varia dal 2,9 al 3,8% di tutti gli ospiti delle strutture stesse pari ad un numero stimato fra 8.500 e 11.000, che rappresentano il 24,5-31,7% del totale dei morti complessivi per Covid-19 registrati in Italia. Si tratta di un numero enorme ma che si colloca ben al di sotto del fantomatico 50% e delle quote registrate negli altri paesi europei. Non da meno, altre rilevazioni (è possibile citare i dati dell’Osservatorio sulle RSA della LIUC o le rilevazioni ISTAT), fanno emergere come nel corso della pandemia COVID si siano registrati eccessi drammatici di mortalità rispetto alle annualità precedenti, in molti Comuni e regioni. Questi eccessi di mortalità hanno caratterizzato tutti i setting (casa, ospedali, RSA, servizi per la disabilità) ma i dati più drammatici non sono quelli registrati nelle RSA, quanto proprio nelle case, dove troppi anziani e famiglie si sono trovate sole a gestire le conseguenze della pandemia, in un momento storico dove gli ospedali non ricoveravano più, oppure selezionavano i pazienti per età, oppure il 1127118 non interveniva per sovraccarico e i medici di famiglia non erogavano visite a domicilio, Quando normalizzati per classi di età, è possibile senza problemi affermare che in quello scenario le RSA non hanno rappresentato la causa del problema, ma nonostante la drammaticità del momento hanno svolto anzi una funzione di protezione, facendo registrare tassi di letalità e di mortalità inferiori a quelli degli ospedali e soprattutto delle normali abitazioni.

Si vuole porre l’attenzione di codesta Commissione, che durante l’emergenza da Covid-19 molte persone anziane e i residenti di LTCF in particolare, sono state ritenute troppo fragili per qualsiasi tentativo di cura, anche solo per il trasferimento in ospedale, sono state quindi gestite in residenza è non sempre è stato possibile somministrare trattamenti specifici e di ventilazione. Questa considerazione è stata ancora più restrittiva se gli anziani erano affetti da demenza. Per le RSA i criteri per il ricovero in ospedale non erano chiari e sebbene i pazienti residenziali, presentassero un rischio più elevato di polmonite e/o insufficienza respiratoria acuta, le diverse normative regionali e gli stessi documenti dell’ISS raccomandavano fortemente la gestione in residenza con isolamento in camera singola, piuttosto che il ricovero ospedaliero. È stato evocato il principio della proporzionalità delle cure, ma nel caso dell’emergenza da Covid-19 il trattamento per gli anziani in generale e per i residenziali in particolare è stato considerato inappropriato per fattori puramente contestuali e con le inevitabili conseguenze che ben conosciamo. Inoltre, alcune recenti evidenze sulle nursing homes americane hanno dimostrato con chiarezza la correlazione positiva tra la minor presenza di personale e la maggior diffusione del Covid-19 tra i residenti (Figueroa et al., 2020), e che il maggior fattore predittivo di diffusione del contagio all’interno delle RSA è rappresentato dal livello di contagiosità dell’area geografica limitrofa piuttosto che dalla qualità assistenziale della residenza. Ora, da diversi mesi, stiamo assistendo ad una vera e propria emorragia soprattutto di personale infermieristico reclutato indiscriminatamente dagli ospedali e dai presidi scolastici, lasciando

sguarnite le strutture. Nessuno si è però fatto carico o cercato di evitare questo grave dissesto assistenziale, sostenuto e arginato solo dalla grande professionalità e spirito di dedizione di chi lavora nelle residenze. Nulla invece si è detto delle centinaia di migliaia di anziani morti da soli in ospedale o al proprio domicilio senza nessun tipo di assistenza, nella solitudine più totale e nella disperazione dei familiari.

La scarsa o nulla considerazione verso le RSA, purtroppo si è ripresentata anche nel recente decreto ‘Rilancia Italia’, dove le RSA sono state cancellate fra quelle che potevano avere diritto ad una forma di ristorno per i maggiori oneri sostenuti per la gestione emergenza Covid 19, senza riconoscere il gran lavoro svolto, gli alti costi per l’ implementazione degli interventi di prevenzione e controllo intensivo delle infezioni, inclusi l’isolamento e la creazione di aree di quarantena, test virali per il personale, DPI, nonché altre strategie di preparazione alle emergenze in un momento di grande precarietà anche economica a causa della repentina riduzione dei ricoveri ordinari.

PROPOSTE PER LA RIORGANIZZAZIONE DELL’ASSISTENZA SANITARIA E SOCIOSANITARIA

  • Bisogna anzitutto puntare ad un “sistema” di long-term care, per esempio secondo le recenti proposte del Network Non Autosufficienza, dotato di finanziamenti adeguati e organici che superi l’attuale frammentazione del sistema di finanziamento di singole componenti o di misure e interventi accessori. Implementare modelli di prossimità fra residenzialità e territorio, ad esempio, anche attraverso l’erogazione di prestazioni sanitarie e sociosanitarie al domicilio da parte di equipe collegate o integrate con quelle dei servizi residenziali. Valorizzare le capacità e la struttura organizzativa delle RSA, soprattutto nelle regioni dove le normative di autorizzazione, accreditamento e contrattualizzazione sono più solide e consolidate, come supporto e base di erogazione del sistema dell’assistenza territoriale di presa in carico degli anziani a ridotta o assente autonomia. Questo, in integrazione con i sistemi di cure primarie, i distretti sociosanitari e i comuni e sotto il governo complessivo delle Aziende sanitarie locali.
  • Sviluppare modelli di formazione e certificazione del ruolo degli assistenti familiari e di normalizzazione del loro rapporto di lavoro e degli obiettivi di cura nei confronti di anziani a diversa fragilità e autonomia. Favorire l’emersione del lavoro nero e definire con chiarezza i compiti che essi possono svolgere e quelli che necessariamente devono essere garantiti da operatori professionali dei servizi formali di assistenza domiciliare sociale, sociosanitaria e sanitaria. Questo nell’interesse delle persone anziane, delle famiglie, degli assistenti familiari e della solidità e tenuta complessiva del sistema di long-term care;
  • Definire un Progetto legislativo nazionale e unitario strutturale sulla regolamentazione delle strutture per anziani di competenza dello Stato, al fine di garantire lo stesso servizio su tutto il territorio nazionale, in quanto esso rientra nei Livelli essenziali di assistenza. In questo modo verrebbero garantiti in tutte e venti le Regioni le stesse definizioni e gli stessi parametri strutturali assistenziali.
  • Nelle RSA autorizzate e accreditate, rivedere e ridefinire i requisiti organizzativi alla luce del progressivo incremento del carico assistenziale e della complessità clinica dei residenti con parallelo riconoscimento dei costi sanitari incrementati. I parametri assistenziali devono essere ripensati qualificando le risposte sanitarie: aumentare la presenza infermieristica in modo tale da garantire la presenza 24 ore su 24 su strutture da almeno 60 posti letto; prevedere la figura del medico di struttura, che vada a sostituire il medico di medicina generale, in modo tale che si possa effettivamente svolgere la funzione medica da parte della R.S.A, richiedere per le direzioni di struttura requisiti di accesso alla professione e formazione continua, al fine ridurre l’incidenza delle mala gestio, intraprendere percorsi formativi di coordinamento sanitario e di specialistica geriatrica con coerente valorizzazione dei costi sanitari a carico delle regioni. Portare a compimento quanto previsto dall’accordo Stato-Regioni del febbraio 2001 relativamente alla formazione degli O.S.S.S., figura intermedia fra l’area sanitaria e quella assistenziale.
  • Costituire un Tavolo di monitoraggio del pool di finanziamenti presso il Ministero della Salute e presso ogni Regione, al fine di valutare l’effettiva destinazione e l’andamento delle prestazioni sanitarie ed assistenziali. Questo Tavolo dovrebbe essere composto dalla rappresentanza della Conferenza Stato-Regioni, dalle rappresentanze dei gestori, dalle rappresentanze degli Utenti, dalla Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, e dalle rappresentanze sindacali dei lavoratori.

Riconoscendo alle RSA autorizzate e accreditate un ruolo specifico:

a) nella formazione dei diversi professionisti delle equipe multidisciplinari e nella formazione degli specialisti geriatri;

b) nella ricerca scientifica in ambito sanitario, sociosanitario e socio-assistenziale, basata sull’approccio bio-psico-sociale della cronicità e multi morbilità, sulla valutazione multidisciplinare geriatrica e sulla medicina della complessità.

Ripensando e valorizzando il ruolo specifico delle RSA nel continuum assistenziale, come elemento complementare e sinergico delle cure territoriali, delle cure primarie, delle cure specialistiche e ospedaliere, con un ruolo decisivo a favore degli anziani in condizioni croniche complesse e avanzate (fragilità, dipendenza funzionale, vulnerabilità e multi morbidità).

Le scriventi Associazioni aprono ed aspirano ad ogni forma di collaborazione affinché – pur nella consapevolezza che la realtà che rappresentano si mostra come un insieme molto eterogeneo, sia a livello nazionale che locale – si possa trovare una risposta l’appello del Presidente Sergio Mattarella il quale, nel denunciare che “il mondo dell’anziano è a rischio” ha esortato tutti noi ad “avviare dei percorsi di diagnosi e cura per chi è fragile o rischia di diventare tale”.

Preservare e curare al meglio gli anziani è cruciale per il futuro di una comunità che si fregia del titolo di “civile e democratica”.

Il presente documento è stato elaborato e sottoscritto dalle organizzazioni AGeSPI, ANASTE, ANSDIPP, ARIS e UNEBA in data 16 febbraio 2021.

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